“Mi chiamo Sara e sono la mamma di due bambini di 8 e 9 anni e mezzo.
Abitiamo in una città del nord e la nostra esperienza sulla varianza di genere inizia cinque anni fa quando il mio primogenito, all’epoca una bimba di 5 anni, frequentava ancora la scuola materna.
Faticavamo parecchio con lei: rifiutava di indossare qualunque cosa ci fosse nell’armadio, era ostinata nel non volersi far pettinare i capelli e aveva un modo di giocare aggressivo e distruttivo. Capitava che le maestre chiamassero da scuola perché in bagno provando a fare pipì in piedi si bagnava completamente, altre volte si toglieva le maglie e le indossava al contrario e non c’era possibilità di fargliele rimettere nel modo corretto e quasi tutti i giorni rifiutava di togliere in classe il cappellino da baseball: aveva imparato ad infilarci dentro la treccia o la coda e non voleva liberarsene mai.
Esasperati da queste continue difficoltà, ci siamo convinti a farle fare una visita dal neuropsichiatra infantile il quale in tre sedute le ha diagnosticato un “distrurbo del comportamento con iperattività e momenti di oppositività”.
Ci è stato consigliato un percorso psicoterapeutico che potesse aiutare nostra figlia nella gestione delle emozioni.
Le sedute settimanali durate un anno, erano basate su osservazioni di gioco libero, attività strutturate, disegno e ci hanno permesso di comprendere che quei modi aggressivi e oppositivi non erano altro che rabbia e paura.
Intanto nostra figlia ci esprimeva con fatti e parole di essere maschio. Tanto che nella relazione ricevuta al termine del percorso era ormai per tutti Mario, aveva i capelli corti e vestiva in modo maschile. La dottoressa riconosceva un “Distrurbo dell’identità di genere” e ci indirizzava verso un centro, presente nella nostra regione, specializzato nella varianza di genere.
All’epoca mio figlio aveva 7 anni e mezzo.