La storia di Mario (9 anni) e sua mamma Sara

“Mi chiamo Sara e sono la mamma di due bambini di 8 e 9 anni e mezzo.
Abitiamo in una città del nord e la nostra esperienza sulla varianza di genere inizia cinque anni fa quando il mio primogenito, all’epoca una bimba di 5 anni, frequentava ancora la scuola materna.
Faticavamo parecchio con lei: rifiutava di indossare qualunque cosa ci fosse nell’armadio, era ostinata nel non volersi far pettinare i capelli e aveva un modo di  giocare aggressivo e distruttivo. Capitava che le maestre chiamassero da scuola perché in bagno provando a fare pipì in piedi si bagnava completamente, altre volte si toglieva le maglie e le indossava al contrario e non c’era possibilità di fargliele rimettere nel modo corretto e quasi tutti i giorni rifiutava di togliere in classe il cappellino da baseball: aveva imparato ad infilarci dentro la treccia o la coda e non voleva liberarsene mai.
Esasperati da queste continue difficoltà, ci siamo convinti a farle fare una visita dal neuropsichiatra infantile il quale in tre sedute le ha diagnosticato un “distrurbo del comportamento con iperattività e momenti di oppositività”.
Ci è stato consigliato un percorso psicoterapeutico che potesse aiutare nostra figlia nella gestione delle emozioni.
Le sedute settimanali durate un anno, erano basate su osservazioni di gioco libero, attività strutturate, disegno e ci hanno permesso di comprendere che quei  modi aggressivi e oppositivi non erano altro che rabbia e paura.

Intanto nostra figlia ci esprimeva con fatti e parole di essere maschio. Tanto che nella relazione ricevuta al termine del percorso era ormai per tutti Mario, aveva i capelli corti e vestiva in modo maschile. La dottoressa riconosceva un “Distrurbo dell’identità di genere” e ci indirizzava verso un centro, presente nella nostra regione, specializzato nella varianza di genere.

All’epoca mio figlio aveva 7 anni e mezzo.

Dopo un primo incontro privato con la neuropsichiatra infantile, Mario è stato preso in carico dalla struttura.
Nello specifico erano previsti incontri settimanali, alternando sedute individuali a quelle di gruppo.
Tra aprile 2018 e aprile 2019 gli sono stati somministrati una serie di test psicodiagnostici e di valutazione cognitiva alla fine dei quali abbiamo ricevuto una relazione totalmente irreale fatta di pagine nelle quali ci si rivolgeva a lui esclusivamente al femminile e lo si dipingeva come un bambino o meglio, una bambina a loro dire, “fragile con difficoltà nella qualità del pensiero”. Come se ciò non fosse stato abbastanza, la relazione era  accompagnata ad un’impegnativa logopedica per “valutazione delle funzioni cognitive per sospetto DSA”.
Diventa difficile per chi non lo conosce far capire quanto tutto ciò fosse assurdo: mio figlio è un bambino sereno, bravo a scuola e logorroico e posso dire con certezza assoluta che è così che lo hanno conosciuto anche loro.
Ci siamo chiaramente straniti mentre ci veniva letta la relazione dalla neuropsichiatra che nel frattempo ci presentava la nuova dottoressa che avrebbe preso in carico nostro figlio, dal momento che quella precedente era andata via.
Specificava che non erano d’accordo su un passaggio di consegne pertanto si rendevano necessari un paio di incontri con me e mio marito per presentarle la situazione e poi avrebbe conosciuto nostro figlio e iniziato con lui un percorso (immagino lo stesso della collega precedente).
La nostra esperienza lì è finita quel giorno, troppa la follia, la delusione, le mancate risposte a quanto richiesto.
Ricordo bene che ad ogni nostra domanda circa il motivo di quell’assurda relazione della logopedista o di una nuova presa in carico ancora più impegnativa di quella passata, ci veniva risposto che era per il suo bene. Non ricordo spiegazioni diverse da quel dirci continuamente che era per il suo bene e per il suo bene avremmo dovuto capire quanto fosse importante tutto quello che ci indicavano.
E’ stato un accanimento terapeutico unito ad un’enorme bugia: quella di far passare mio figlio come bisognoso di chissà ancora quante sedute e noi in colpa se non lo avessimo fatto.
Mi è stato chiaro dopo quale fosse il disegno, nulla di personale credo, ma una politica in cui loro assumevano un ruolo di giudice rispetto alla autodeterminazione di mio figlio in quanto maschio nonostante assegnato femmina alla nascita. Una politica che portava ad una patologizzazione totale dell’identità e che più avanti avrebbe portato alla negazione dei bloccanti, i farmaci  necessari affinché i nostri figli e le nostre figlie possano non soffrire del cambio del corpo durante la pubertà, farmaci ormai riconosciuti a livelli mondiale come essenziali alla salute dei e delle minori gender variant.
Qualcosa di buono che traggo da questa esperienza comunque c’è ed è stato il gruppo dei genitori che frequentavamo quando i bambini erano impegnati nelle sedute di gruppo. Quegli incontri, basati sulla condivisione di esperienze, mi hanno arricchita parecchio. Soprattutto il confronto con i genitori degli adolescenti per capire quali avrebbero potuto essere le problematiche future e cosa si poteva cercare di fare per evitarle.
Ho conosciuto genitori che erano lì da molto più di tempo di noi, il cui figlio non aveva ancora ottenuto nulla di pratico.
Sapevo benissimo che mio marito ed io non eravamo certo migliori di loro.”
Moltissimi minori sono parcheggiati e patologizzati in questi centri che vogliono fare della loro identità una malattia. I genitori di questo racconto sono stati in grado di capire che lasciare il proprio figlio “in carico” a questo centro, avrebbe solo significato la sua infelicità. E’ del tutto comprensibile che dei genitori cerchino informazioni e aiuto da chi dovrebbe saperne più di loro. Meno lo è il fatto che i centri che si occupano di identità di genere in Italia, continuino a patologizzare quella che è semplicemente un’espressione naturale dell’essere umano.

 

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